Riporto nel mio blog un bell'articolo pubblicato sul quotidiano L'Opinione.
In Italia è raro trovare giornalisti che scrivono quello che davvero pensano senza preoccuparsi di andare contro il Pensiero Unico imposto dal regime repubblicano.
In Italia c'è una quasi totale accettazione della
Vulgata repubblicana che secondo me e' preoccupante in quanto dimostra che gli intellettuali ed i giornalisti sono per lo piu’ indottrinati.
Quindi l'autore (ed anche il giornale l'Opinione) ha il grande merito di pubblicare la sua riflessione storiche e politiche di quello che successe in Italia nel 1943-46 criticando anche chi (napolitano) oggi pretende di insegnarci la Storia.
L’articolo è un'analisi seria, concreta ed incontrovertibile della storia del nostro Paese ma purtroppo temo che non troverà eco. Le scuole ed i media sono quasi completamente succube di un Pensiero Unico che limita la democrazia e la liberta’.
Il regime repubblicano con una spietata propaganda tiene sotto controllo la stampa, televisioni e le scuole e solo nel web e’ facile trovare opinioni e riflessioni autentiche, nel senso che sono scritte da persone libere.
E' importante che gli italiani mantengano costantemente viva la memoria, ma il difficile processo di maturazione di coscienza deve avvenire senza che la Storia sia strumentalizzata.
Purtroppo invece il periodo della Liberazione e’ stato completamente falsato dai partiti ed in particolare dai comunisti.
L'avvento della repubblica era la prima tappa per poi far trionfare anche in Italia il comunismo e qundi il PCI doveva innanzitutto eliminare la Monarchia.
Inoltre per il PCI l'unico modo per legittimarsi completamente era quello di far parte dei vincitori e di "occupare la Liberazione". Per far cio' il PCI elimino' personaggi scomodi come i numerosi partigiani monarchici (ricordo Sogno) ed i soldati fedeli al Re.
L’errore fatale e’ stato che nel periodo difficile e delicato della Liberazione e Riscatto nazionale, insieme all’acque sporche si butto’ via anche il bambino, nel senso che, cancellando la Monarchia insieme al fascismo, l’Italia perse l'Identita' e la Forza, e quello che stiamo assistendo in senso negativo e' in gran parte causato dagli errori compiuti allora dai partiti.
Essendo un monarchico, e quindi non repubblichino o postfascista, non ho problemi a riconoscere che la Resistenza e' stato un momento di riscatto dell'Italia ma
il "25 aprile" e' una data storica sbagliata ma che pero' è necessario riscrivere la Storia.
Si deve avere il coraggio di raccontare la Resistenza senza nascondere nulla, smitizzare quel che c'è da smitizzare, e per ottenere questo si deve procedere su due piani.
Su quello politico si deve liberare la Storia e le Istituzioni dalle ideologie e dalle strumentalizzazione da parte dei partiti.
Sul piano storico e culturale si deve insegnare che la Resistenza fu soprattutto fatta dai soldati del Regno d’Italia fedeli al Re (il primo esempio e' quello di Cefalonia) piuttosto che dai partigiani.
Riscrivere la Storia non significa denigrare o svalutare la Resistenza ma
per giungere ad una vera pacificazione insegnando che quel moto di riscatto nazionale al quale dobbiamo la riconquista dell'indipendenza, dignità e libertà dell'Italia lo dobbiamo alla Monarchia, ai Savoia, ai Soldati fedeli al Re ed a quei partigiani che, senza macchiarsi di atti contro altri italiani, hanno combattuto pensando solo al bene della nostra Patria.
I punti fondamentali da chiarire sono che la repubblica e la resistenza non sono le stesse cose, come non lo sono la democrazia e repubblica.Se nel referendum istituzionale del 1946 avesse vinto la Monarchia, la Resistenza non sarebbe stata certo cancellata ma anzi rafforzata ed accettata piu' di adesso per il semplice motivo che non sarebbe strumentalizzata dai partiti.
Quindi gli Italiani hanno potuto scegliere liberamente le sue forme costituzionali per
le scelta opportune e corrette fatte da Re Vittorio Emanuele III, che garantirono la permanenza dello Stato sovrano nato dal Risorgimento (Monarchia), e per la presenza di una volontà politica democratica fedele al luogotenenza ed al breve
regno di Umberto II.
Quindi i repubblicani, non solo i monarchici, dovrebbero ringraziare i Savoia ma evidentemente questa verita' e’ molto scomoda alla repubblica che continua a tenere le Salme dei Sovrani lontane dal Pantheon risorgimentale.
La costituzione e la monarchia
di Riccardo Scarpa
Le riflessioni sulla “Resistenza” del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno riaffermato, nell’occasione dell’ultimo 25 d’aprile, un profilo alto del garante delle libere istituzioni e della coscienza nazionale. Con quel ricordo rispettoso d’ogni caduto, a prescindere dalla scelta compiuta in momenti difficili, ed al contempo con quel esigere rispetto per la storia, per quanto attenga ai principî fondanti dello Stato libero. Ne risulta la conferma d’un profilo della suprema magistratura dello Stato tanto morale quanto, direi, fisica, da re, quale un Umberto che non avesse patito i risultati referendarî alla Romita e fosse lì, ringiovanito, con una sua naturale tendenza ad una «monarchia socialista», quella ipoteticamente saragattiana e non l’obiettivo polemico del Missiroli prefascista. Detto questo, si consentano dei rispettosi rilievi storiografici, indispensabili proprio per rimarcare i principî fondanti d’un senso di patria che possa essere condiviso appieno.
Il Capo dello Stato, nel discorso di Genova, avoca alla «Resistenza» il merito d’aver fatto sì che la nuova Costituzione del 1947-48, promulgata da Enrico De Nicola, sia frutto d’un Assemblea costituente eletta a suffragio universale diretto, al contrario delle due altre date alle potenze dell’«asse» sconfitta. Queste ultime, infatti, o sono frutto, come la «Legge fondamentale» della Repubblica Federale di Germania, di opera dei Länder locali sotto controllo delle potenze occidentali, con l’approvazione d’una Consulta costituzionale eletta per modo di dire, oppure, come in Giappone, direttamente date per ispirazione dello stesso generale Douglas Arthur MacArthur, comandante delle forze alleate del Pacifico. Questo avvenne, però, per tre circostanze che debbono essere rese esplicite. Sono le scelte del re Vittorio Emanuele III e del principe Umberto quale luogotenente generale del Regno, nei difficili frangenti fra la fine dell’ultimo governo Mussolini, il 25 luglio del 1943, l’8 settembre successivo e la ricostituzione delle Regie forze armate col I Raggruppamento motorizzato e, poi, Corpo italiano di liberazione.
Queste scelte furono: 1) la tanto discussa decisione, costituito un Governo che liberasse lo Statuto dalle sovrastrutture fasciste, nelle difficili circostanza generate da modi e forme nelle quali gli anglo-americani resero noto l’armistizio, di «mettere al sicuro» i vertici istituzionali da rappresaglie germaniche per conservare la continuità dello Stato italiano, esattamente come fece Stalin nell’Unione Sovietica, riparando in gelide regioni interne distanti da Mosca per leghe non paragonabili al tiro di schioppo che separa Roma da Brindisi o Salerno, e non prendendo neppure in considerazione di riparare all’estero, come fecero i sovrani d’Olanda o Belgio e fece il generale Charles De Gaulle, per «dirigere la resistenza francese»; 2) l’allaccio immediato di contatti istituzionali con gli alleati, che perciò non occuparono mai le province sotto controllo del regno, e ne riconobbero la sovranità sui territorî mano a mano liberati, sino a riaccreditare a Roma le rispettive rappresentanze diplomatiche una volta liberata la capitale; 3) la immediata e spontanea resistenza, checché se ne dica, di molte unità militari agli occupanti germanici nella penisola, nelle isole greche e nei Balcani, e la ricostituzione di Forze armate regolari, combattenti con valore al fianco degli alleati, dalla partecipazione alla battaglia di Montelungo del I Raggruppamento motorizzato, nel dicembre del 1943, alla costituzione del Corpo italiano di liberazione (un corpo d’armata) nell’aprile del 1944, coi Gruppi di combattimento (divisioni) Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova i Piceno, cioè d’un esercito di 413.000 uomini, coadiuvato da una marina di 83.000 uomini e un’aeronautica di 31.000, è a dire di Forze armate che hanno lasciato sul campo 87.000 caduti tra l’8 settembre del 1943 e l’8 di maggio del 1945, alle quali s’aggiungono gli 80.000 militari presenti nelle formazioni partigiane ed i 590.000 internati dai Germanici, poiché rifiutarono con essi ogni collaborazione, pel giuramento reso al Re ed alla Patria.
Tutto ciò ha impedito che lo Stato italiano abbia dovuto subire alcuna «debellatio», cioè annullamento della sua esistenza statuale. Proprio quanto, invece, venne imposto alla Germania rappresentata dall’ammiraglio Karl Dœnitz, per conto del governo d’affari formato dal conte Johann Schweirn von Krosigk per trattare una resa che fu incondizionata. Situazione espressa nella «legge» promulgata, il 25 di Febbraio del 1946, col n°46, da parte del Comitato di Controllo interalleato che dispone: «Lo Stato prussiano, insieme col suo governo centrale ed i suoi ufficî, è abolito». Apparte il tono ridicolo dell’enunciato, che è come se gli alleati, nel 1943 o nel 1945, avessero abolito il Regno di Sardegna, sta in fatto che lo Stato italiano, per le tanto discusse scelte politiche del momento di S. M. il Re Vittorio Emanuele III, e del suo governo, non subì una simile «debellatio», e per tanto fu pienamente sovrano nel scegliere come e con quali forme riformare il proprio ordinamento costituzionale. Se, poi, le modalità scelte per decidere la forma di Stato e di Governo furono quelle del referendum e dell’elezione d’un Assemblea costituente, votati per suffragio universale e diretto, ciò lo si deve a decreti legislativi luogotenenziali di Umberto di Savoia.
Infatti re Vittorio Emanuele III, col Regio decreto del 2 agosto 1943, n.705, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni e dichiarato, così, chiusa la XXX legislatura, ma le elezioni per la nuova Camera si davano per rinviate alla fine delle ostilità, e nelle more il potere legislativo veniva assunto dal governo, con decreti legge, che comunque mantenevano la clausola della presentazione al Parlamento per la conversione. Il sovrano, cioè, si limitò ad agire nell’ambito statutario, in attesa che le circostanze politiche consentissero il normale funzionamento dello Statuto Albertino. È con la nomina d’Umberto a luogotenente generale del Regno, che quest’ultimo, alla fine di tutto un processo politico, con decreto legislativo luogotenenziale del 25 giugno del 1944, n°151, che onestamente gli editori dovrebbero pubblicare a premessa storica della Costituzione vigente, si prevede l’elezione a suffragio universale diretto dell’Assemblea costituente e lo svolgimento del referendum sulla forma istituzionale dello Stato.
Quindi, la nazione ha scelto liberamente le sue forme costituzionali per due fatti storici concreti: la permanenza dello Stato sovrano nato dal Risorgimento, procurata da scelte, rivelatesi opportune e corrette, colle quali Re Vittorio Emanuele III ha concluso il suo lungo regno; una volontà politica democratica, rappresentata con fedeltà dalla luogotenenza e dal breve regno di Umberto II. Se, poi, un personale politico miope, nelle sue visioni di prospettiva storica, tiene ancora le ossa dei protagonisti lontane dal Pantheon risorgimentale, ciò lo si deve alla mancanza di coraggio con cui lor signori affrontano ogni giorno quel referendum diuturno che, come scriveva Ernest Rénan, è la nazione: il sentimento della quale, proprio per questo, continua a perdere il referendum ogni giorno, esclusi quelli in cui gioca la nazionale.
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