Di fronte alle promulgazione della
legge sullo scudo fiscale, firmate da napolitano e contrastate duramente dal partito IDV, un articolo pubblicato sul Corriere della Sera chiarisce la posizione costituzionale del presidente della repubblica di fronte ad una legge già approvata dal Parlamento.
L’articolo spiega che al presidente della repubblica
non spetta il potere di veto sulla promulgazione della legge, ma solo il potere di restituirla alle Camere per una nuova deliberazione se ci sono casi di manifesta incostituzionalità.
Nulla di obiettare ma allora si dovrebbe applicare lo stesso metro di giudizio anche per un altro Capo di Stato d’Italia,
Re Vittorio Emanuele III.
Anche il Re, rispettoso dello Statuto Albertino, non aveva potere di veto e quindi anche Lui non poteva rifiutare di promulgare leggi volute dal Parlamento.
In particolare mi riferisco alle leggi razziali del 1938 e mi chiedo: perchè non c’è stato questo corretto atteggiamento nei confronti di Re Vittorio Emanuele III ?
Perchè Re Vittorio Emanuele III viene indicato come responsabile di queste legge razziali, quando in realtà Lui non poteva fare nulla?
Questa considerazione (insieme ad altra) fu usata durante il referendum istituzionale del 1946 “per far vincere la repubblica”, ed in seguito la repubblica continua ad usare menzogne per impedire che in Italia si possa sviluppare un discorso sereno e fruttuoso sulla Storia del nostro Paese.
Questa debole repubblica italiana, che si sta auto distruggendo, non ha il coraggio e forza di ammettere di aver sbagliato anzi, in fondo, teme sempre la Monarchia.
Insomma la repubblica italiana segue la tecnica usata dalle ideologie: una menzogna ripetuta sempre alla fine diventa verità. E la repubblica usa questa menzogna per screditare la Monarchia.
Ecco così che le persone che difendono – spesso in maniera scomposte - i presidenti della repubblica, continuano a sputare veleno su Re Vittorio Emanuele III, indicandolo come responsabile delle famose legge razziali.
Innanzitutto queste leggi furono volute da Mussolini, (attraverso il parlamento), non dal Re. Una verità troppo spesso dimenticata.
Inoltre la promulgazione delle norme approvate dal parlamento era, per il Re (rigidamente costituzionale), un atto dovuto.
Inoltre si deve ricordare che il Re fu sempre contrario a quelle norme discriminatorie. Per ben 3 volte rifiutò di firmarle, nella speranza che il parlamento ci ripensasse o che chi era contrario insorgesse, ma invano. (fatto sempre dimenticato dalla propaganda repubblicana)
Allora era molto difficile opporsi al governo mussolini, c’era un unico partito (fascista), e perciò i 3 rifiuti del Re hanno un valore ben superiore rispetto a quelli che potrebbero fare i presidenti attuali.
Sul tema della promulgazione di leggi si deve considerare la differenza tra Re e presidente.
Il presidente è sempre un politico, appartiene ad uno schieramento politico, sono i partiti a portarlo al quirinale, è stato parlamentare, ministro se non addirittura capo del governo. Insomma in una repubblica, il presidente rappresenta l’apice di una brillante carriera politica.
Il Re invece non appartiene alla classe politica, non è eletto dai partiti, deve solo rispettare la Costituzione, rappresentare la Nazione e difendere il Popolo.
Tenendo conto di ciò, allora
rimangono sempre dubbi sull’operato di un presidente, lui era ed è sempre un politico e quindi di parte...
la legge sullo scudo fiscale
Il potere di veto che il Quirinale non ha
Il capo dello Stato può soltanto restituire una legge alle Camere per una nuova deliberazione
Di fronte alle polemiche, anche assai dure e talora scomposte, ai limiti del lessico vilipendioso, che hanno accompagnato la promulgazione — da parte del presidente Napolitano — della legge di conversione del decreto relativo allo «scudo fiscale», è opportuno stabilire qualche elementare punto fermo, ad evitare il moltiplicarsi degli equivoci.
Anche perché si ha la sensazione che molte di tali polemiche muovano da cattiva informazione, con riferimento altresì ai poteri ed alle prerogative spettanti in materia al capo dello Stato. Prescindendo qui dai molti rilievi critici, in chiave di immoralità politica, che possono rivolgersi alle scelte trasfuse nel suddetto decreto legge (soprattutto a causa del messaggio mortificante di cui sono destinatari, in questa come in altre analoghe occasioni, i cittadini rispettosi delle leggi), un primo punto da chiarire riguarda la posizione costituzionale del presidente della Repubblica di fronte ad una legge già approvata dal Parlamento. In ipotesi del genere, infatti, al presidente non spetta alcun potere di «veto » circa la promulgazione della legge, ma soltanto il potere di restituirla alle Camere per una nuova deliberazione — nei casi di manifesta incostituzionalità — sulla scorta di un proprio «messaggio motivato», fermo restando comunque il suo dovere di promulgarla, ove la stessa legge venga nuovamente approvata. Nel nostro caso il presidente Napolitano, non potendo entrare nel merito delle scelte parlamentari, non ha ritenuto di esercitare il suddetto potere di restituzione alle Camere (ciò che avrebbe determinato, tra l’altro, la decadenza del decreto legge ormai convertito, a sua volta «correttivo» di un precedente decreto, sia pure attraverso un’innegabile trafila di «anomalie procedurali») per l’assenza di un evidente profilo di incostituzionalità delle previsioni che vi sono contenute.
In particolare, bisogna convenire che la pur discutibilissima «esclusione della punibilità penale» per numerosi reati di falso e di natura societaria, ivi compreso il falso in bilancio, in quanto strumentali ai reati tributari coperti dagli effetti dello «scudo» (e sempre che per gli stessi non sia stata ancora esercitata l’azione penale), non può qualificarsi in senso tecnico come un’«amnistia». E quindi — anche secondo ripetuti insegnamenti della Corte Costituzionale — non avrebbe richiesto la particolare procedura prescritta dalla Costituzione per le leggi di amnistia. Per il resto, un altro aspetto sul quale si è fatta molta confusione, riguarda la possibilità che i fatti relativi al rimpatrio ed alla regolarizzazione dei capitali illecitamente detenuti all’estero possano essere utilizzati a danno del contribuente anche in altri procedimenti. Al riguardo, mentre la risposta è negativa per quanto concerne i procedimenti civili, amministrativi e tributari (salvo che siano già in corso), non ci sono dubbi, invece, in linea con una modifica ispirata proprio dalle fondate preoccupazioni del Quirinale, circa l’utilizzabilità di tali fatti nei procedimenti penali, già pendenti od anche non ancora avviati. In analogo ordine di idee va sottolineata, infine, l’infondatezza dell’interpretazione secondo cui tra gli effetti dell’adesione allo «scudo fiscale» vi sarebbe anche quello di porre nel nulla l’«obbligo di segnalazione» cui intermediari finanziari, professionisti ed altri operatori sono di regola tenuti quando abbiano sospetti di «operazioni di riciclaggio» o di «finanziamento del terrorismo».
Tale obbligo risulta venuto meno, infatti, soltanto con riferimento ai reati (di falso o societari, in quanto connessi ai reati tributari condonati) per i quali risulta esclusa la punibilità come conseguenza dello «scudo»; mentre rimane fermo in rapporto ad ogni altro reato, per il quale possano sorgere simili sospetti, a cominciare ovviamente dal riciclaggio. Anche a questo proposito il Quirinale aveva molto insistito, durante i lavori preparatori della legge, per evitare incertezze, e sul punto sono stati forniti adeguati chiarimenti sia dal governo, sia dalla Agenzia delle entrate. Non è molto, ma si tratta pur sempre di dettagli, che rendono meno indigeribile un provvedimento, per sua natura politicamente poco decoroso, come lo «scudo fiscale».
Il potere di veto che il Quirinale non ha